Chi mi conosce sa che non ho un particolare interesse per la poesia in generale, sebbene io apprezzi il valore di alcuni autori che sono e rimangono pilastri della letteratura italiana. Tuttavia, il caso di Marco Patuzzi è diverso. Lui si definisce “poeta ermetico”, in quanto i significati dei suoi componimenti non sono immediatamente accessibili. Lui però, al contrario di altri, che mettono nero su bianco le loro immagini e lasciano che sia il lettore a vedere se e cosa suscitano, ha fatto una scelta diametralmente opposta. Il suo obiettivo è quello di trasmettere le sue personali emozioni nel modo più efficace possibile, quindi non si limita a scrivere: interpreta. In altri termini, abbina alle nude parole una gamma complessa di sonorità e una gestualità studiata per massimizzare l’efficacia della comunicazione, realizzando quelle che lui definisce “performance”. All’inizio si rimane spiazzati, come sempre accade quando ci si trova di fronte a qualcosa di nuovo e inaspettato. Poi, superata la perplessità, si viene quasi catapultati all’interno di un’esperienza a più livelli (“multimediale”, sebbene in un senso molto diverso da quello correntemente usato), che trasmette sensazioni su più canali paralleli, in maniera intensa e coinvolgente. È difficile indicare il genere in cui si collocano le “performance” di Marco Patuzzi. Non si tratta di teatro, né di letteratura, nel senso più classico di entrambi i termini. Di sicuro, sono l’espressione di una creatività vissuta e originale. Non è affatto escluso che stiamo assistendo alla nascita di una nuova forma d’arte. Il tempo ce lo dirà.
Vittorio Piccirillo