La poesia di Marco Patuzzi è un pugno in faccia. E’ svegliarsi di notte dopo aver fatto un incubo. E’ la visione delle angosce che teniamo nascoste per non impazzire. E’ un temporale, è guardare il buio e averne paura. Così mi sento quando ascolto e guardo le sue performance. Ed è così che lui ti prende e ti porta nel suo mondo agonizzante e tormentato. Le sue mani toccano la terra, il suo corpo è immobile all’inizio, magari piegato su se stesso, ma poi la sua voce, i suoi versi, a volte sussurrati, a volte urlati, chiedono alle mani, alla testa, al busto di piegarsi e tendersi in avanti, o in alto, come se volessero pregare o offrire qualcosa a un cielo che come una cappa pesa sul mondo. Marco declama “tutti i possibili mondi dentro e fuori di me”, come se il dentro e il fuori fossero la stessa cosa, come se i suoi gesti simbolici espandessero all’esterno quello che c’è in lui, come se non avesse importanza il corpo e la pelle che lo delimita e che separa l’interno dall’esterno. Ed è così che il senso di angoscia lascia il posto a una speranza: il potere dell’uomo è immenso, e in un mondo caratterizzato dall’individualismo si può e si deve uscire da se stessi, cercare l’altro, quello che ci circonda, arrivare a riscoprire il senso arcaico e puro di umanità.

Arianna Franzan